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Descrizione:

L’Assessorato alla Cultura inaugura Sabato 27 maggio 2006 alle 19.00, nella Galleria Carlo Carrà di Palazzo Guasco - Via Guasco 49 Alessandria - la mostra fotografica di Mara Mayer "D come donne diritti doveri" a cura di Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea e Elena Forin
La mostra rimarrà in esposizione dal 27 maggio 2006 al 2 luglio 2006 con il seguente orario di apertura al pubblico:
tutti i giorni dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19.30
Chiuso il lunedì mattina. Venerdì 2 giugno aperto
Ingresso libero
Per prenotazioni gruppi e scuole tel. 0131 304030.
In collaborazione con “Italia Nostra” sezione di Alessandria
info: Provincia di Alessandria.
Assessorato alla Cultura tel. 0131 304006
Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea www.sabrinaraffaghello.it
Ideazione
Assessorato alla Cultura della Provincia di Alessandria
Presidente della Provincia di Alessandria Paolo Filippi
Assessore alla Cultura della Provincia di Alessandria Maria Rita Rossa
Vicepresidente della Provincia di Alessandria e Assessore alle Pari Opportunità Maria Grazia Morando
Segreteria Particolare Assessore alla Cultura
Giorgio Abonante ,Antonella Mischiati
Dirigente Settore Cultura
Michele Tibaldeschi
Coordinamento Progetto
Francesca Liotta
Comunicazione esterna
Margherita Iacoviello
Struttura Amministrativa
Samantha Pilotto ,Franco Ferrando
Organizzazione mostra e allestimenti
Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
Patrocinio Regione Piemonte Provincia di Alessandria
Testi in catalogo di
Paolo Filippi ,Maria Rita Rossa , Maria Grazia Morando
Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea
Elena Forin
Michele Maranzana
Catalogo edito da vanillaedizioni
Se il voto politico rappresenta la svolta del ruolo femminile degli ultimi sessant’anni della nostra storia, sappiamo che dagli albori della civiltà, anche nelle società più “discutibili” sul piano della considerazione della donna, in qualche modo, anche sottile, essa ha sempre occupato un posto speciale. Persino strega bruciata al rogo, nei periodi dell’assurgere al peggiore degli stati possibili – quello demoniaco – la donna è stata, suo malgrado, grande protagonista.
Questa mostra non indaga certamente venti secoli di storia femminile, ma sicuramente ne tiene conto, nell’implicito bagaglio psicologico ed ontologico che, ogni donna dei giorni nostri, porta con sé. Sono volti contemporanei quelli catturati dall’obiettivo di Mara Mayer, parti di un tutto che osservano e da cui sono osservate. E appunto ad un osservatorio quanto mai umano, l’artista alessandrina si è sempra riferita, desiderosa in questo caso di porre in essere una narrazione di genere, tra realtà personale e realtà sociale. Cogliendo nella professione di ciascuna delle protagoniste, la consapevolezza soggettiva ad un’appartenenza più grande che quella ad una funzione riconosciuta e definita, Mayer svolge anche il tema del potere. E proprio nell’affrescare il potere, l’autrice, non retoricamente, sembra ricordarci, l’unico possibile: quello della vita. Pretesa in un’individuazione lavorativa, ma soprattutto nei colori, nella luce, nella possibilità di uno sguardo, di un gesto . . .
Paolo Filippi
Presidente Provincia di Alessandria
Maria Rita Rossa
Assessore alla Cultura Provincia di Alessandria
Ci sono almeno due modi, peraltro complementari, per accostarsi a queste fotografie di Mara Mayer.
Il primo attiene naturalmente al percorso artistico dell’autrice, fotografa e performer alessandrina ormai affermata che ci propone un suggestivo itinerario di immagini di grande fascino e valore che, come Provincia, con soddisfazione vogliamo proporre all’attenzione dei cittadini.
La seconda modalità, strettamente collegata al percorso artistico di Mara Mayer, e sulla quale vorrei soffermarmi, riguarda i soggetti di questa mostra.
Volti di donne, donne di questa provincia. Un omaggio alle nostre concittadine che, tuttavia, simboleggiano e rappresentano l’universo femminile italiano di questo inizio millennio, le sue conquiste e la sua storia di emancipazione.
Basterebbe andare indietro con la memoria e ci accorgeremmo che appena venti o trenta anni orsono questa mostra non avrebbe potuto essere realizzata. Qui ci sono infatti volti di donne impegnate nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, donne che hanno contribuito a restituire all’Italia la libertà e la democrazia, donne attive nel sociale, studentesse e intellettuali. Mondi che ancora pochi anni fa alle donne erano negati, o erano difficilmente accessibili. E allora guardiamo queste immagini con la consapevolezza che molto è stato compiuto nel percorso di emancipazione femminile, ma consapevoli anche che nulla è stato regalato. Sono proprio questi volti a dircelo, a consegnarci questo messaggio: ciò che oggi sono le donne lo hanno conquistato, con grandi difficoltà ma con determinazione e in modo irreversibile.
L’emancipazione femminile come un itinerario di lotta dunque, non certo concluso. Basta guardare altre immagini che pure sono in questa mostra e che rappresentano anch’esse la realtà della nostra provincia e della nostra nazione, i suoi problemi, le condizioni di sofferenza e di oppressione non ancora risolte che percorrono il mondo femminile.
C’è dunque ancora molto da lavorare, ed è proprio su questi problemi che, come Assessorato, insieme alle donne, al mondo dell’associazionismo e alle Istituzioni, vogliamo concentrare il nostro impegno.
Maria Grazia Morando
Vicepresidente e Assessore alle Pari Opportunità Provincia di Alessandria
Dato che ho sempre ritenuto il confronto condizione indispensabile alla crescita , ho basato il mio lavoro su una serie di immagini femminili , per dimostrare che il cammino della donna verso l’emancipazione è sempre stato in salita.
Sin dall’inizio del mondo la donna è nel mirino , tant’è vero che il Padre Eterno cacciandola, insieme ad Adamo, dal Paradiso terrestre la maledice dicendole “ partorirai con dolore”. E’ un punto di partenza molto chiaro: se il momento più bello nella vita di una donna, la nascita di un figlio, è caratterizzato dalla sofferenza, ben possiamo immaginare come sarà il resto.
Dolore e sofferenza però non ci hanno scoraggiate anzi, forse, sono stati stimoli ulteriori per andare avanti lungo il percorso dell’emancipazione che ha ottenuto cocenti sconfitte ma anche vittorie epocali.
La battaglia , cominciata nel 1877 con il lavoro di una serie di donne tra cui vanno ricordate Anna Maria Mozzoni e Anna Kulisciof, non si può dire conclusa nè con il raggiungimento del suffragio universale, 1946, nè con la dichiarazione della parità dei sessi sancita nella Costituzione italiana del 1948, perché non dobbiamo dimenticare che il diritto al voto non sempre coincide con il diritto alla cittadinanza.
Fino a non molti anni fa la donna era considerata un’accessorio del capo famiglia: prima del padre, poi del marito. Nel Codice Rocco se l’art.486 sanciva che la donna adultera era sottoposta a una pena che poteva variare dai tre mesi fino ai due anni di reclusione, l’ art. 587 prevedeva per l’uomo che commetteva il “delitto d’onore” una riduzione di un terzo della pena. Questo avveniva in epoca fascista.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 le donne lottavano per ottenere salari più equi, l’istruzione obbligatoria, il diritto alla salute, alla protezione del lavoro minorile e femminile. Per questo ritengo sia giusto ricordare che l’8 marzo non è una festa commerciale in cui si va in pizzeria e poi a vedere lo spogliarello maschile ma si celebra il sacrificio di 129 operaie tessili americane- tra cui molte immigrate- morte nell’incendio della fabbrica in cui stavano scioperando per ottenere migliori condizioni lavorative. Questo avveniva nel 1908. Più tardi le donne ebbero il coraggio di entrare a far parte della resistenza dando così un contributo significativo per la liberazione del nostro Paese dal fascismo. Altre vittorie furono conquistate: penso alla legge Merlin del 1958 che abolisce lo sfruttamento della prostituzione, alla legge che nel 1961 apre le porte alla carriera diplomatica e in magistratura, penso alla legge sul divorzio del 1970, a quella sull’aborto del 1977 e penso alla riforma del diritto di famiglia,1975, che sancisce parità legali tra i coniugi .
Ritengo però significativo l’ultimo rapporto di Amnesty Internetional in cui si denuncia che ancor oggi un miliardo di donne nel mondo vengono picchiate, mutilate, violentare da padri, mariti, fratelli, famigliari e amici. Che molte donne non hanno nè acqua nè cibo per se’ né per i propri figli, non hanno medicinali per curare anche una semplice dissenteria che diventa causa di morte, non hanno un lavoro come mezzo di sostentamento, o che molte ce l’ hanno ma precario.
Ricordiamoci che già la Kulishoff nel 1898 aveva capito che la libertà e la pari dignità di una donna passano dal lavoro e dell’indipendenza economica e per questo fu arresta in quanto colpevole di reato d’opinione.
Ecco perché il mio lavoro fotografico si è basato su di una serie di ritratti a confronto perché credo che pur avendo ottenuto il diritto al voto la strada verso una pari dignità sia ancora lunga. Credo anche che non dobbiamo scordarci che ci sono realtà diverse dalla nostra in cui la situazione delle donne è paragonabile alla nostra di qualche anno fa. Per questo ritengo che il diritto al voto sia un bene prezioso da custodire gelosamente ovvero da esercitare ogni qualvolta si è chiamati alle urne.
Mara Mayer
“C’è una sola cosa
che la fotografia
deve contenere:
l’umanità della situazione”
Robert Frank
Nel corso degli anni il dibattito sulla fotografia si è soffermato su una grande varietà di tematiche e di approcci diversi. Il celebre binomio arte-vita, fulcro poetico di movimenti importantissimi come il futurismo, ha trovato in questo mezzo il canale privilegiato per poter dimostrare la possibilità di far entrare nel circuito estetico frammenti più o meno estesi di quotidianità, e questa è stata, per l’arte, un’innovazione fondamentale, perché rendere protagonista il reale significa avere una gamma infinita di possibilità di studio dell’umanità, delle sue abitudini, dei suoi contesti. Nel tempo, poi, la vita e la società si sono fatte sempre più complesse e articolate, e il progresso delle scienze e della tecnologia ha portato, insieme allo sviluppo economico e ad una gestione internazionale dell’economia e delle risorse, ad una serie di problematiche sociali, umane ed ambientali che il mondo dell’arte in particolare non ha potuto trascurare. Così è nato il Reportage, un genere che ha fatto della piena partecipazione ai fatti della vita il suo strumento d’indagine principale, e che nella denuncia di situazioni di difficoltà e ingiustizia ha trovato la sua motivazione fondante, motivazione tale per cui possiamo affermare che non sia solo un nuovo genere, ma proprio un modo differente di intendere l’arte, perché, forse per la prima volta, si è aperta la possibilità che la riflessione non fosse strettamente autoreferenziale. Il soggetto privilegiato, in un mondo così complesso, non poteva rimanere lo stesso, e se gli artisti aprirono alle contraddizioni del sistema gli orizzonti della loro ricerca, questo avvenne perché si comprese la grande efficacia del linguaggio artistico per il raggiungimento di una consapevolezza maggiormente allargata. E poi la fotografia, nel suo essere il prelievo di un attimo, di un frammento temporale e situazionale ben preciso, non poteva che essere lo strumento privilegiato di una forma d’arte così impegnata nelle cause sociali.
Oggi, nel sessantesimo anniversario del riconoscimento del diritto di voto alle donne, questa mostra testimonia che la necessità documentaristica non è scemata, perché drammatica è ancora la situazione di molte realtà, e un confronto è forse l’unica possibile alternativa per poter sviluppare una mentalità maggiormente partecipativa. Certamente Mara Mayer questo lo sa bene, perché da tempo la sua ricerca si è concentrata su questi aspetti, sulla volontà, innanzitutto, che lo scatto fotografico si concentri là dove c’è più bisogno di uno sguardo attento, ma anche dove non è solo il contesto a dover emergere, perché le situazioni, alle volte, si leggono negli sguardi, nei piccoli dettagli, nella forma delle espressioni. Per questo, dai suoi viaggi nascono due tipologie lavorative diverse, ma che a partire da tale presupposto si compenetrano per arricchirsi a vicenda: il reportage vero e proprio, e il ritratto. Ora, nell’impossibilità, in questa sede, di approfondire entrambi gli aspetti, ci soffermeremo sul secondo dei due filoni, e vedremo di rapportarlo alle considerazioni generali fatte finora sulla fotografia e sul reportage stesso, perché parlare di ritratto e di fotografia sociale significa riferirsi ad un panorama alquanto complesso e ricco di contaminazioni concettuali. Nella maggior parte dei casi infatti, ci siamo trovati di fronte ad una sorta di ibridazione dei due generi, una fusione di aspetti che, come abbiamo accennato per Mayer, si sono uniti e hanno dato vita a brani di grande spessore emotivo ed intellettuale. August Sander fotografava a figura intera i rappresentanti di ognuna delle classi sociali della Germania degli anni Venti, Brassaï sceglieva la vita notturna di una Parigi “Babele” dei divertimenti e della perdizione, i cui personaggi, sempre lì lì per scomparire da un momento all’altro, sfidavano con lo sguardo la macchina, offrendosi come i primi spregiudicati iniziatori di una socialità estroversa e scanzonata. Per Diane Arbus, invece, la fotografia doveva documentare la diversità (o l’uguaglianza, nel celebre caso delle gemelle Cathleen e Collen), la bizzarria e il fenomeno da baraccone, per offrire l’immagine di un mondo soffocato da una certa grettezza ben pensante, che tendeva, per una sorta di volontà sociale diretta verso il “bello”, a dimenticare o ad escludere la presenza dell’anormalità o dell’eccentrico. Oppure, ancora, Thomas Struth e Thomas Ruff, che con i loro ritratti asettici e impersonali volevano sottolineare l’appiattimento e la riduzione all’impersonalità cui porta una società massificata come la nostra.
Per Mayer, invece, le motivazioni che sottendono all’operazione estetica sono diverse, l’arte, nel suo essere strumento di denuncia, deve avere un altro approccio, deve liberarsi da ogni costrizione e da ogni obbligo culturalmente imposto per farsi piena manifestazione degli stati d’animo, ed è per questo che sceglie quei tagli così ravvicinati, per dare la possibilità alle espressioni di emergere apertamente e senza filtri per entrare immediatamente in una forma di speciale contatto con chi osserva.
E poi, le donne di Mayer, appartengono a contesti e situazioni completamente differenti, situazioni non solo di vita vissuta, ma anche di contesto, eppure il trattamento dell’immagine è lo stesso, piano orizzontale e obiettivo ravvicinato al massimo, perché la diversità, le peculiarità, gli aspetti privati così come quelli collettivi, non hanno bisogno, per emergere, d’altro se non di un po’ d’attenzione, l’attenzione di uno sguardo davvero democratico che non guarda al disagio con pietà e compassione, ma con la serenità di chi sta svolgendo un lavoro sul mondo e sull’uomo, una serenità che può essere tale solo perché alimentata dalla certezza delle reazioni che il lavoro susciterà. Questa è la libertà per Mara Mayer, è la volontà di avere uno sguardo attento sul mondo, uno sguardo intenso e deciso a trattare gli uomini nello stesso modo, da esseri fragili, sentimentali, scanzonati o disperati. Quello che conta, insomma, è l’attenzione per il sentimento e per la sensazione vibrante, perché, e Mayer lo dimostra molto bene con i suoi scatti, sono questi i dettagli più significativi ed eloquenti anche per quello che nelle foto non compare, e cioè il contesto, la situazione sociale e politica in cui si trovano queste donne, tutte impegnate in una lotta quotidiana per l’affermazione dei propri diritti.
Questo slittamento da un piano all’altro, poi, ci porta ad una conclusione fondamentale: il genere puro, insomma, non esiste e non ha proprio più senso, perché la contemporaneità ci ha educato a degli approcci più liberi e aperti allo scambio tra il tutto e le parti, per questo ritratto e reportage sociale sono visceralmente legati, perché un’indagine sul singolo può parlarci del suo contesto in maniera molto più eloquente di quello che crediamo.
E se poi vogliamo tornare all’uguaglianza dello scatto, ciò che dobbiamo sottolineare è che una diversificazione è necessaria: le donne di Mara Mayer non riversano tutte in situazioni di indipendenza e progresso umano e sociale, per questo, se anche lo sguardo deve essere il medesimo, la costruzione finale dell’immagine deve subire delle variazioni a seconda del grado di sviluppo mancante, il montaggio, insomma, deve tener conto dello squilibrio in atto nel mondo e in qualche modo deve compensarlo, regalando a quei volti la stabilità di un supporto diverso dalla carta, un supporto rigido, non effimero e fragile, ma solido, pronto a durare nel tempo, un po’ come il ricordo di quelle immagini e della causa che bisogna sostenere. Così Mara Mayer sfonda in qualche modo il concetto tradizionale di tempo in relazione alla tecnica della fotografia, perché se il messaggio che lancia è in divenire, e se è dalla visione che comincia un percorso esistenziale, umano e politico, allora il tradizionale concetto per cui lo scatto isola un momento bloccandolo e in qualche modo congelandolo, per Mayer non ha senso, così come tutta la riflessione che vede nel ritratto l’idea della morte di un soggetto bloccato in un determinato frangente temporale.
E se allora la fotografia è il momento privilegiato per la crescita di un’idea, per il pulsare di una coscienza sociale e umana che continua a crescere in relazione all’immagine e ai sentimenti, allora un altro nodo è stato sciolto, quello che per Robert Frank costituiva uno degli aspetti più difficili dell’arte: la descrizione di quella “linea sottile dove finisce la concretezza ed inizia la mente” , quella stessa linea sottile che è l’asse portante del lavoro di Mara Mayer e della sua indagine antropologica.
Elena Forin
Iniziative collaterali
7 giugno convegno a cura dell’Associazione Culturale Psy and co
Donne: i volti del potere tra simbolico e reale
alle ore 9,00 presso la Sala Convegni della Provincia di Palazzo Guasco ,via dei Guasco, 49
info: tel. 3358417966; mail psyeco@virgilio.it
Donne, volti, potere.
Parlare delle donne rischia di essere nella nostra società ormai quasi un’operazione rituale e rivestita di retorica: ci piace però pensare che si possa anche cercare di riflettere sul femminile attraverso la dimensione più diretta e più vera dell’incontro, quell’incontro autentico che, affermava Lévinas, avviene attraverso il volto. Ecco allora che i volti, gli sguardi delle donne raccontano, anche attraverso le foto, le loro storie: storie inevitabilmente uniche, personali. Proprio in questa unicità possiamo incontrare un risultato ultimo della riflessione delle donne sulle donne: il rifiuto di non essere cancellate in un soggetto <>, in un universale che è stato costruito sul maschile.
Riflettere sul senso delle storie personali porta tuttavia ad acquisire la consapevolezza di come queste si incrocino nella dimensione del sociale. Il sociale ci pervade, ci attribuisce posizioni e ruoli, ci colloca nell’ordine dei discorsi e dei simboli e segna i volti e i corpi in modi mutevoli e indelebili. E allora l’incontro con le immagini, con i volti e le storie personali può diventare anche occasione per riflettere sulla condizione delle donne rispetto ai molteplici ordini sociali in cui si inseriscono, sul loro essere parte di universi segnati dal potere, quel potere che, dice Hillman, è l’idea dominante della nostra civiltà. Ma si tratta di un’idea complessa, stratificata, a volte sorprendente. Potere è dominazione, controllo, ma anche conoscenza, influenza, status, creatività, produzione e riproduzione… Il rapporto fra donne e potere, dopo un secolo di femminismo, rischia invece ancora di essere trattato a senso unico, anzitutto come riflessione sull’esclusione o sull’autoesclusione delle donne dai luoghi più visibili del potere nella sfera pubblica: la politica, l’economia, la cultura accademica. In questo il genere resta un sistema di differenziazione forte, le disuguaglianze reali, iscritte, se non più nel diritto, nelle culture organizzative, nei meccanismi cooptativi e nelle reti informali che danno accesso alle gerarchie.
Richiamiamo allora un diritto all’equità, ma che presupponga anche il riconoscimento di un diritto alla differenza. Una differenza che appare negata dagli stereotipi e dai luoghi comuni, riprodotti e diffusi dalla comunicazione di massa, di donne che si affermano assumendo i modi e gli stili dei maschi, ma anche dalle immagini atroci delle donne soldato di Abu Ghraib, su cui si infrange l’idea di una "divisione sessuale del lavoro morale", che assegna il negativo solo agli uomini. In queste molteplici rappresentazioni si conferma sempre la realtà della donna intesa solo come oggetto del discorso dell’uomo, termine negativo funzionale e necessario alla sua definizione: relegata nell’ombra e nel silenzio, impossibilitata a costituirsi come soggetto di un discorso proprio ed autonomo. Ed è proprio nella dimensione dell’inconscio, dell’immaginario, delle identificazioni simboliche, del linguaggio che si istituiscono le strategie da cui discendono i rapporti di potere in cui le donne sono incluse.
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La possibilità di un discorso autonomo sulla donna esiste anzitutto nel riconoscimento della differenza legata al <>, alla base biologica che istituisce la condizione creativa straordinaria della maternità, da cui discendono dimensioni relazionali e trasformazioni determinanti anche per i maschi. Così si istituiscono un femminile e un archetipo materno in ciascun essere umano, lo sviluppo di funzioni psichiche legate al sentimento, all’intuizione e alla sensazione, la condizione di un ordine simbolico alternativo e della possibilità del cambiamento. Questo cambiamento porta con sé nuove strade per lo sviluppo e l’affermazione dell’identità di donne e uomini, di un potere basato sulla relazione e sulla cooperazione piuttosto che sul dominio e la competizione.
Nella realtà dei volti delle donne di questa mostra di Mara Mayer, oggi, possiamo allora riconoscere l’incontro e la mediazione fra le due immagini femminili contrapposte di Penelope che, nel tentativo di trattenere il suo uomo, trattiene anche se stessa, e di Circe, maestra di passione e conoscenza, protagonista di trasformazioni di sé e dell'altro da sé. Il futuro, come è stato detto, <>.
Associazione Psy & Co